copertina corpi estratti dalle macerie quarup davide
 
In un residence a poche centinaia di metri dal fiume Ural, Ivan e Martha, amanti in crisi, bloccati da un’incessante bufera all’interno della stessa stanza, sono costretti al ruolo di prigionieri l’uno dell’altra. La tempesta di neve dilata i tempi dell’incontro (scontro) tra i due in vista della risoluzione finale che rovescia – con espedienti da tragedia greca – ogni certezza acquisita.
L’opera di Franco Calandrini si caratterizza per lo spiccato andamento dialogico, più serrato e stringente nella parte conclusiva del racconto. Il numero – ridotto all’essenziale – di personaggi sulla scena, uno stile espressivo monocorde, a suo modo realistico, l’ambiente bloccato nell’hic et nunc, sembrano guardare da vicino alle unità aristoteliche, svincolando quasi l’operetta dall’ambito della narrativa e accostandola sorprendentemente a quello della drammaturgia. Il tema della morte, evocato allusivamente dal titolo, è piuttosto un pretesto per imbandire una disadorna “camera della tortura”: da qui si arriva alla verità per spoliazione, scarnificando la coscienza da ogni certezza borghese.
Non privo di suggestioni pirandelliane, il racconto si avvicina, a tratti, alla lezione di A porte chiuse di J. P. Sartre (l’inferno è l’altro). La pagina di Calandrini – che pure registra imprecisioni nella marcatura dei dialoghi e in certe depressioni di stile, spesso troppo concessivo nei confronti dell’oralità – segna un buon passo in avanti rispetto a È colpa di chi muore. Nella sua – ricercata – rudezza rimane una lettura che consigliamo per il modo in cui sa rovesciare posizioni e prospettive.