giovedì 4 luglio 2013

Corpi estratti dalle macerie di Stefano Coccia per http://www.gothicnetwork.org

Corpi estratti dalle macerie. Conversando con Franco Calandrini

Articolo di:  Stefano Coccia
 
Corpi estratti dalle macerie
I primi incontri che abbiamo avuto con Franco Calandrini, grande appassionato di cinema, hanno avuto quale cornice il Ravenna Nightmare, un festival internazionale dedicato all’horror che dirige con passione da diversi anni. E l’impatto è stato subito positivo. Attento ascoltatore, schivo, riservato, poco incline a starsene sotto i riflettori ma schietto e mordace qualora si tratti esprimere le proprie emozioni rispetto a un film, Calandrini è una di quelle persone con cui è interessante e piacevole confrontarsi. Lo è quando ci si sofferma sulla comune passione per determinati generi cinematografici, come pure se vien voglia di spaziare su altri argomenti.
Tra le altre cose Franco Calandrini è anche uno scrittore. Ha esordito con È colpa di chi muore, romanzo noir, ma ad accendere la nostra curiosità è stata la recente pubblicazione di Corpi estratti dalle macerie; anche perché di quest’altro breve romanzo, pubblicato dalla casa editrice Quarup, conoscevamo già il particolare legame con certe esperienze di vita dell’autore, che per un periodo nemmeno troppo breve si è ritrovato a lavorare in un lontano paese dell’ex Unione Sovietica.
Alla prova del nove, notevole è stata la nostra partecipazione emotiva al racconto; un’empatia generatasi scoprendo a poco a poco l’intenso e claustrofobico dramma sentimentale vissuto da Martha e Ivan, coppia di amanti originari di paesi diversi, schiaffati dalla loro compagnia petrolifera in un residence di lusso “a poche centinaia di metri dal fiume Ural”. Un lavoro per il quale sono entrambi professionisti molto apprezzati li ha portati fin là. Ed è questa frontiera sia geografica che dello spirito, con le temperature proibitive dell’inverno kazako e un terzo incomodo, il marito di lei, che via Skype sembra potersi materializzare da un momento all’altro, ad alimentare una tensione costante; una tensione che si manifesta attraverso la reclusione forzata in quell’interno sempre sul punto di implodere su sé stesso, così da fagocitare le ansie e le aspettative residue di una coppia in balia di meccanismi psicologici tanto crudeli, quanto difficili da gestire. Scrittura tagliente, forma inusuale, dialoghi e flussi di pensiero capaci di scolpire in poche pagine psicologie complesse, hanno reso la lettura di Corpi estratti dalle macerie oltremodo densa di suggestioni e di aperture verso sofferti mondi interiori. Di tutto ciò abbiamo scelto di parlare direttamente con l’autore, Franco Calandrini.

Corpi estratti dalle macerie è il tuo secondo romanzo, dopo il noir "È colpa di chi muore". Pensi che dall'esordio nella narrativa il tuo approccio sia mutato parecchio?

Franco Calandrini: È quasi inevitabile pensare che, dove c’è un morto, specie se nel titolo, ci sia qualcosa di noir, ma io ho troppo rispetto e troppa considerazione di chi scrive veramente noir per potermi considerare facente parte di questa categoria di scrittori, che hanno una coscienza e una padronanza dei propri mezzi che a me manca del tutto. Io non sono così attrezzato. Tu poi sai benissimo cos’è il noir al cinema e in letteratura, quindi non ti sarà difficile capire che cosa intendo. Le mie storie procedono per quadri o piccoli spostamenti, a volte tentano spericolate ellissi drammaturgiche, ma poi le troviamo appena un po’ più avanti rispetto a dove erano partite. Mi piace iniziare il racconto molto in prossimità della sua fine naturale perché ti permette di utilizzare quel poco di tempo che rimane, più per scavare in profondità che per allontanarti dal punto d’inizio. I sette ottavi dell’iceberg è sempre meglio che restino sotto, a disposizione di chiunque abbia più immaginazione di me. Anche questa storia quindi s’inserisce in quel tipo di struttura, e questo anche nei primi racconti, quindi penso che l’approccio, anche se poi il risultato cambia, sia sempre il medesimo.

E come sei approdato a una scrittura così densa, per nulla convenzionale, in cui le situazioni descritte, i pensieri e i dialoghi dei personaggi sono come immersi in un flusso continuo?
Franco Calandrini: Guarda, avendo io iniziato a scrivere molto tardi, ho avuto tutto il tempo di capire quale fosse la forma narrativa a me più affine, e cercando di attingere a quegli autori che sento più vicini (Lodoli e McCarthy tra tutti, che ovviamente non lo sanno, ed è meglio così) il risultato è quello che puoi vedere, e che si ripete negli anni, che non so se possa considerarsi una cifra stilistica, ma il tentativo a cui tendo è quello. Questo tipo di scrittura mi è congeniale proprio perché le mie storie hanno uno sviluppo orizzontale e le azioni si svolgono spesso più nelle testa dei personaggi che sulla scena. Questo romanzo, ad esempio, che si muove tra le mura di un appartamento, rende quasi inevitabile la contiguità tra il parlato, il pensato e l’agito. Quello che dicono confluisce in un’azione che rimanda a pensieri e o cose non dette che creano comunque conseguenze sull’azione successiva.
Sappiamo che l'ambientazione del tuo libro si lega, in qualche modo, a determinate esperienze di vita. Che cosa puoi dirci a riguardo?

Franco Calandrini: Non amo molto la descrizione di luoghi o di persone, un po’ perché non lo so fare e un po’ perché se non sei Conrad rischi di annoiare e basta. Ma se non fossi stato in Kazakistan non avrei mai potuto scrivere questa storia. Non perché non possa svolgersi in ogni altra parte del mondo (l’ambizione di uno scrittore in fondo è questa: narrare qualcosa di particolare che abbia valore universale): solo che se non avessi sentito il freddo (che noi europei nemmeno immaginiamo) sulle mie ossa, se non avessi mangiato in posti di lusso (kazako) a due euro a pasto completo e in mense modestissime a 50 centesimi, se non avessi impiegato un giorno per cercare una stampante a colori, se non avessi imparato a leggere quel poco di cirillico che ti permette di distinguere almeno una bottega di generi alimentari da un negozio di scarpe (dato che oltre i vetri oscurati che danno sulla strada non si vede niente), se non avessi perso un intero pomeriggio per comprare un pc e una stampante, rendendomi poi conto che è normale che sia così, se non avessi visto pescare e camminato sul fiume Ural ghiacciato, se non avessi imparato quelle poche ma essenziali frasi in russo che fanno la differenza tra chi se la può cavare da solo e chi no, se non avessi sentito lì, mentre si attraversa il ponte che divide l’Europa dall’Asia nell’abitacolo di un taxi che dire fatiscente è un complimento, le canzoni di Vladimir Vysockij, un autore immenso , probabilmente avrei capito ben poco dell’approccio alla vita che hanno i nativi, e la mia visione sarebbe stata paragonabile a quella di qualsiasi altro espatriato privilegiato.

Rapporti di coppia in crisi. Scelte eticamente difficili. Delicati equilibri emotivi. Le tematiche scandagliate attraverso questa relazione così problematica sono indubbiamente forti; che cosa ti ha spinto a raccontare simili personaggi, con il loro sofferto bagaglio interiore?
Mi interessava indagare il confine che divide il buon senso dalla codardia, il senso di responsabilità dal fanatismo. Qual è il carico che siamo disposti a sopportare prima di nasconderci o girare lo sguardo da un'altra parte? In questa storia, che si sviluppa, (ma certo non si risolve) nel giro di poche ore, si scava alla radice dei sentimenti, sia quelli più nobili che quelli più vili. Dinamiche ben riconoscibili nel rapporto d’amore di ogni coppia che vive momenti inziali di passione che sembra non debba mai esaurirsi, ma che poi si trova a dover fare i conti con il quotidiano di fronte al quale, il più delle volte, specie se abbiamo vissuto amori importanti, non siamo disposti a tollerare. Ma c’è ancora qualcosa di più e di diverso in questa storia, c’è un elemento che non solo ci interroga sul senso della vita, anzi, meglio, del “dare la vita”, qui c’è la domanda che sta alla base di ogni scelta morale, religiosa e perfino razziale: quale tipo di vita siamo disposti a generare?

Pensi che la forte coesione drammaturgica del tuo racconto si presti, senza grosse forzature, a un possibile adattamento teatrale?
Franco Calandrini: Sai, a dire la verità la forzatura è stata romanzare quella che era nata come una pièce teatrale e che ovviamente, se non sei drammaturgo consolidato, nessuno ti pubblica. Il mio editore, oltre ad essere estremamente preparato, è stato un grande stratega: prima mi ha blandito paragonando il mio lavoro a quello di Bernard-Marie Koltès, portandomi in una direzione che usciva dalla forma teatrale classica, poi, scampato il pericolo, mi ha ricondotto sulla sponda di Cormac McCarthy, e lì ha impiegato pochissimo tempo a convincermi su quale fosse la strada da intraprendere. E a quel punto il gioco di prestigio era già fatto. Comunque, a dire il vero, per tutto il tempo della scrittura, non solo l’ho immaginata come pièce teatrale, ma per facilitarmi i gesti e i dialoghi immaginavo pure i due protagonisti (che altri non potevano essere se non Kate Winslet e Shia LaBeouf… non so, se ti capita di farci un’intervista, diglielo!). Comunque ad oggi c’è l’interesse di farci un film girato assai probabilmente nei pressi di Bratislava, con una co-produzione Italia - Repubblica Slovacca ancora tutta da impostare, ma sono piuttosto fiducioso che un film o uno spettacolo teatrale si riesca a fare entro il prossimo anno.
 
 
 
 

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